mercoledì 30 luglio 2008

Bad movies we love - La casa sulla collina di paglia

Bad movies we love
ovvero
una lista di pellicole che vanno ben oltre il trash! Opere talmente brutte, goffe e approssimative da essere quasi geniali...

Film che brillano per la totale mancanza di talento dei cineasti che li hanno realizzati.

Pellicole che rimangono nella memoria per l'imbarazzante inadeguatezza degli attori protagonisti.

Noi non cerchiamo lo stracult alla Marco Giusti... no! I film che vi presentiamo in queste pagine sono esteticamente talmente splatter che farebbero inorridire perfino Tarantino! Non sono trash: sono semplicemente, deliziosamente e oltraggiosamente camp!

Per dirla come i futuristi:
vogliamo cantare l'amor per il pericolo (e alcuni di questi film hanno messo in serio pericolo la nostra sanità mentale, fidatevi),
l'abitudine all'energia (e ce ne è voluta davvero molta di energia per rimaner svegli fino alla fine),
la temerarietà (caratteristica che di certo non manca a chi si arrischia a visionare questi gioielli della cinematografia internazionale!!).

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La casa sulla collina di paglia (1976) di James Kenelm Clarke.

Orribile filmetto sexy-horror che James Kenelm Clarke, regista inglese specializzato in film di serie Z, scrive e dirige in fretta e furia nei mesi a cavallo fra il 1975 e il 1976.
Il film nasce dalla volontà di sfruttare il clamore sollevato dal violentissimo Cane di paglia che Sam Peckinpah girò cinque anni prima e, allo stesso tempo, di cavalcare l'ondata di film erotici che andavano per la maggiore nel Regno Unito in quell'epoca.

Così a fianco di due volti familiari del cinema a basso costo (Linda Hayden e soprattutto il gayo Udo Kier), Clarke assolda la (porno) stella nascente Fiona Richmond. Per lei ordisce una raffinatissima sceneggiatura: la fanciulla passa un terzo del film ad amoreggiare con chiunque le capiti sotto tiro (che siano uomini o donne poco importa visto il carattere democraticissimo della avvenente Fiona), un terzo a cercare di uccidere chiunque le capiti sotto tiro (e anche in questo caso apprezziamo che la giovine non faccia distinzioni di genere) e per il tempo restante se ne sta nella sua stanza a masturbarsi guardando la foto del marito, morto prematuramente (dopo tanta attività anche i serial-killer ninfomani meritano un po' di relax, diamine!).

Il film è infarcito di interminabili dialoghi che spesso sfiorano il ridicolo. Per esempio, subito dopo la prima, lunga scena di masturbazione la Richmond e Udo Kier si scambiano queste battute pregne di significato:

Lui: Everything's all right?

Lei: Fine

Lui: You've been a long time

Lei (mordendo voluttuosamente un biscotto): In coming?

D’altronde solo pochi minuti prima, in occasione del loro primo incontro, i due si erano scambiati queste battute pregne di significato.

Lui: Hai un fidanzato?
Lei: Non in questo momento.
Lui: Marito?
Lei: Lo avevo.
Lui: Divorziato?
Lei: No. Ucciso
Lui: Ti piacciono le ragazze?

Dopo di che Lui infila la mano nel reggiseno di Lei, un vero gentiluomo.
D’altronde credo che anche monsignor della Casa raccomandasse di informasi delle tendenze bisessuali delle novelle vedove...

Il film non ebbe particolare successo e fu presto dimenticato, salvo poi ritornare agli onori della cronaca agli inizi degli anni ‘80 quando, in occasione della riedizione in videocassetta, la commissione di censura inglese lo inserì fra i film banditi e ne confiscò tutte le copie in circolazione.

Visto oggi il film ha perso gran parte della sua gratuita provocatorietà. Dopotutto si vedono più nudità e si sentono più assurdità in una puntata di Veline. Col vantaggio, però, che almeno in questo genere di film non imperversa Ezio Greggio… almeno per il momento...

lunedì 28 luglio 2008

RICETTA DI DONNA: I TRAVESTITI COME SOGGETTO D’ARTE

Via del Campo c'è una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

(Via del Campo – Fabrizio de Andrè)

A Carpi è in mostra presso la galleria Imperatore “la quotidianità che si fa straordinario e lo straordinario che diventa arte”, ossia la raccolta di fotografie "I Travestiti".

È dallo sguardo femminile, curioso ed intenso, di Lisetta Carmi che emerge un ritratto forte di Genova, della sua Genova, con i suoi travestiti. Le fotografie sono infatti opera di un’intima frequentatrice del loro mondo, che dal 1965 al ‘71 non solo immortalò, ma conobbe e visse l'ambiente in cui il travestitismo era costretto.

Sono immagini di momenti di vita, dall’incontro con i clienti alla professione esercitata nei vicoli, dalle scene in vesti maschili all’arte del trucco. Una favola che ha come protagonista un’umanità forte, fatta di personaggi che vanno dalla Gitana (il capo del gruppo, la più anziana, che fu giovane amante di De Pisis) alla bella Elena che da gruista del porto divenne “battona”, passando per la Morena che voleva farsi suora e che ispirò il compaesano De Andrè nella celebre Via del campo. Nomi che sono storie, istantanee che sono poesia.

Ed è sulle note del ritratto musicale di Via del Campo tratteggiato da De Andrè che va vista questa carrellata di immagini dolci, di sorrisi ambigui e sguardi intensi: è la colonna sonora della favola, quella cantata dal genovese, una retrospettiva sulle “graziose”, sospese tra sogno e sofferenza, pronte a spendere tutta la notte sulla soglia a vendere a tutti la stessa rosa, ad essere prese per mano ed amate.

Ed è dalle parole della fotografa oggi ottantaquattrenne che viene un’altissima testimonianza, artistica ed umana insieme, oltre che uno spunto di riflessione: «Li ho conosciuti a una festa di Capodanno a Genova nel 1965, loro vivevano nel ghetto degli ebrei, tra Via del Campo e piazza Fossatella. In 6 anni di vita insieme li ho sempre protetti, stimati, ho vissuto la loro sofferenza, l´emarginazione, le violenze, gli arresti. Ma grazie a loro, ho capito me e ho riscoperto la gioia di essere donna in un periodo in cui mi ribellavo al ruolo che la società ci aveva assegnato». Questa è la testimonianza di chi ancora le ama... anche dopo aver salito le scale e chiuso il balcone:

Via del Campo ci va un illuso / a pregarla di maritare / a vederla salir le scale / fino a quando il balcone ha chiuso

venerdì 25 luglio 2008

Tom of Finland e Joe Phillips: due artisti a confronto.

Due artisti, che non potrebbero essere più differenti tra loro, hanno in comune la passione per l’illustrazione di scene di vita, prevalentemente a sfondo erotico, di ragazzi omosessuali.
Un raffronto tra questi disegnatori è possibile, secondo me, perché essi rappresentano due poli di una gamma molto vasta nella quale possono essere inseriti tanti altri artisti che condividono la loro passione.

Tom of Finland, all’angrafe Touko Laaksonen, nasce a Kaarina in Finlandia, nel 1920. Cresce in un contesto sociale altamente omofobo nel quale il giovane artista è costretto tenere nascosta sia la sua inclinazione sessuale sia la propria produzione artistica. Lo stesso Tom ritenne in seguito opportuno distruggere tutte le opere giovanili prima di prestare servizio nella Seconda Guerra Mondiale.
Completamente diverso, invece, il contesto nel quale è vissuto e ha operato Joe Phillips, nato nel 1969 a San Diego, e da sempre appassionato di arte. Avendo frequentato istituti artistici, iniziò a lavorare alla David Anthony Kraft's Comics Interview, per poi fondare una dei più importanti centri di produzione fumettistica della zona: gli Gaijin Studios. L’ambiente fumettistico però non corrispondeva a quelle che erano le aspirazioni del giovane Phillips, che dopo pochi anni abbandonò i Gaijin Studios per andare a lavorare per XY Magazine, una popolare rivista gay. Qui l’interesse di Phillips iniziò a spaziare dai fumetti alle illustrazioni e ai lungometraggi d’animazione.
Da queste brevi biografie si possono cogliere le grandi differenze dei contesti sociali e temporali che influenzarono le produzioni artistiche dei due disegnatori.

La vita travagliata di Tom e le sue tensioni interne portarono alla raffigurazione di scene di vita molto intense, dove è l’impeto sessuale a prendere il sopravvento, e dove molto frequenti sono le raffigurazioni di stupro e scene leather. La presenza di poliziotti e vagabondi ci ricorda che i personaggi sono sempre divisi da un rigido sistema gerarchico, che si riflette nei rispettivi ruoli di predatori e prede, di dominatori e dominati. Ad alimentare ed esasperare la crudezza delle proprie rappresentazioni si aggiunge la scelta stilistica di Tom di non ricorrere mai al colore e di non rifinire mai i propri disegni con inchiostri o chine. Le ambientazioni dei diversi fumetti sono quasi sempre di carattere urbano, ma, anche nel caso in cui Tom sceglie per sfondo giungle esotiche, il sistema gerarchico si ripropone attraverso le etnie a cui appartengono i personaggi: l’eroe di questi racconti è una versione gay di Tarzan che deve lottare con una tribù di aborigeni per conquistare l'amore di un giovane ragazzo bianco. Gli aborigeni all'inizio si dimostrano bellicosi ma poi, una volta dominati dal protagonista, si lasciano allegramente sottomettere. Completamente opposta all’arte di Tom, quella di Joe Phillips ha il colore per vero protagonista tanto che quasi sempre il disegnatore ricorre all’utilizzo del computer per rifinire i suoi disegni. Tutto il sistema gerarchico su cui si basa l’arte di Tom of Finland viene qui a mancare: mancano totalmente stupri e richiami all’universo del leather, rimpiazzati qui da una strizzata d’occhio allo stile delle pin-up girls degli anni ’40, ’50 e ’60. I protagonisti sono ragazzi, soprattutto americani, che si pongono tra loro ad un livello paritario; ad essere raffigurate sono sempre scene positive e serene. Anche la rappresentazione del divertimento sfrenato, anche con scene di sesso di gruppo, è sempre accompagnata da facce sorridenti, da corpi che si sfiorano e da baci la cui intensità lascia presagire il comune accordo tra i partner.

Alla base delle produzioni artistiche ci sono sicuramente due esigenze molto differenti: da una parte quella di voler legare l’amore omosessuale ad una dimensione segreta e inconfessabile, dall’altra l’esigenza di voler slegare l’amore omosessuale da qualsiasi vincolo e considerarlo un qualcosa di positivo a livello sociale, da vivere in piena libertà.
La differenza è secondo me dovuta all’appartenenza a due generazioni diverse, quella precedente che sentiva l’esigenza di una rivendicazione sociale che, con la forza, affermasse i diritti dei gay e l’integrazione della società omosessuale nell’intera comunità, e quella successiva (soprattutto californiana) che pur mantenendo quell’esigenza ha preferito vivere liberamente l’omosessualità, nella semplice vita di ogni giorno.


Le immagini sono state utilizzate a scopo di critica a norma dell’articolo 70 legge 22 aprile 1941 numero 633 e successive modifiche. Le suddette immagini appartengono ai relativi proprietari.

mercoledì 23 luglio 2008

Io leggo: Alex Sanchez: Rainbow Boys, Rainbow High e Rainbow Road

Siamo anche capaci di leggere! Questo è ciò che ci proponiamo di dimostrare con questa rubrica. Il titolo dice già tutto: “Io Leggo” e non si tratterà solamente di libri a tematica gay (come quello qui sotto) o di racconti erotici, ma di tutto ciò che noi riteniamo valga la pena di essere almeno sfogliato. Detto questo, prendete e leggetene tutti.

Parlare di questa trilogia in un blog che tratta di tematiche omosessuali sembra quasi scontato, tuttavia non ho scelto questo libro perché i protagonisti sono tre ragazzi gay, ma per la facilità con cui è possibile immedesimarsi nei personaggi.

Ciascuno di noi ha pensato, almeno una volta, a come sarebbe stato bello scoprire che il compagno di classe o il collega che guardavamo per gran parte del tempo di nascosto durante le lezioni, ricambiava in realtà i nostri sentimenti; Rainbow Boys (insieme ai i suoi due sequel) utilizza questa fantasia come punto di partenza per raccontare le esperienze e le avventure di tre ragazzi.

Sin dalla scelta dei personaggi Alex Sanchez pare voler mostrare come l’omosessualità abbia una serie di sfaccettature che spesso non è possibile (o non si vuole?) vedere, anche a causa dei paradigmi utilizzati dai media, che semplificano eccessivamente quello che invece è un mondo complesso e ancora poco conosciuto al grande pubblico.

Pur trattando di omosessualità, Sanchez non ne privilegia un aspetto in particolare, ma tenta, invece, di mettere in mostra problematiche, gioie e dolori, che tutti noi conosciamo e che garantiscono un grande tasso di compartecipazione alle vicende dei tre protagonisti.

Tutto è affrontato da tre punti di vista diversi, due totalmente opposti e uno nel mezzo, quasi una sorta di mediatore fra gli estremi: in questo modo ogni situazione appare esplorata in tutte le sue possibili sfaccettature, evitando di divenire stereotipata.

I tre romanzi possono essere visti anche come il racconto della formazione di Jason, uno dei tre protagonisti, che inizialmente, non riconoscendosi nel modello gay veicolato dai mass media e dalla società, reprime la propria omosessualità; successivamente, però, impara a prendere coscienza di sé e della sua identità, fino ad arrivare alla piena accettazione.

I primi due libri raccontano le vicende dei tre ragazzi alle prese con l’ultimo anno di liceo, parlano dei primi amori, dei coming-out con le famiglie e gli amici, delle reazioni di questi e delle prime conquiste in ambito scolastico nel contrastare l’omofobia. Il terzo volume, invece, vede Jason, Kyle e Nelson protagonisti di un viaggio nel quale si “scontreranno” con diverse realtà GLBT:si troveranno ad avere a che fare con una ragazza transessuale, una coppia gay che vive una relazione stabile e con un’intera comunità di “fate”, tanto per citare alcuni episodi.

Sicuramente la trilogia Rainbow non potrà essere definita un capolavoro, tuttavia non si può negare che abbia un approccio molto realista, capace di fornire diversi spunti di riflessione e di parlare anche a chi, al contrario di Jason, si trova già alla fine di quel percorso che spesso difficile e tortuoso.

lunedì 21 luglio 2008

Cosa hanno detto di noi

Ognuno è libero di dare consigli, di proporre alternative, di suggerire il meglio. C’è chi lo fa per interesse, chi per altruismo, chi per noia. Forse lo si fa anche perché non si può più dare il cattivo esempio (come direbbe De André...). Non ascoltare le indicazioni che ci vengono date sarebbe segno di idiozia, di ostinazione... D'altronde solo gli stupidi non cambiano mai idea: sbaglio?! Nel caso del Gay Pride nazionale è stato così.

C’era chi desiderava una manifestazione misurata, meno appariscente, che fosse in giacca e cravatta.Questo qualcuno, è stato accontentato. In risposta e in obbedienza al caldo invito alla sobrietà della signora Carfagna (Ministro delle pari opportunità), un gruppo di "curiosi individui" ha infatti scelto il bianco, colore dell’innocenza, e la cravatta, simbolo della dignità rispettabile. Candidi e "a modo", nell’universo colorato del Pride, hanno sfilato, non passando inosservati: certo per il look, ma forse anche per quel cartello che recitava "Carfy, te la sbatto in faccia la cravatta".

Ci sembra di conoscerli... ma prima di azzardare qualsivoglia conclusione, vediamo cosa se ne dice in giro.

Tutto è partito dall’ANSA "… lungo il percorso molti cartelli a favore della laicità ed anche uno dal tono un po' spinto rivolto al ministro Carfagna: "Carfy, te la sbatto in faccia la cravatta", che allude all'invito rivolto dal ministro ad un Pride meno appariscente in giacca e cravatta"a cui han fatto eco i principali quotidiani italiani: Il Corriere, la Repubblica, l’Unità.

Chi approfondisce e sviscera la notizia è GayNews, giornale quotidiano di informazione sull’omosessualità, che recita: "Come Bersaglio, la ministra Carfagna è fin troppo facile: per obbedire alla sua richiesta di essere più educati, i soci di un intero circolo gay di Milano sono venuti al Pride in cravatta (direttamente sulla canottiera, ma c´è caldo), in cambio issano un cartello dove la ministra compare ancora nelle sue passate (scarse) vesti di ragazza calendario, «Carfi te la sbattiamo in faccia noi la... cravatta»."

Cosa è arrivato al bersaglio? Qual’era lo scopo? Di sicuro se ne è parlato, spesso più con riferimenti che con approfondimenti: è passata la foto nella maggior parte dei casi, si è riportata la notizia, più sul Web (tanti blog, basta inserire in Google il motto del cartello per trovarne in quantità. Tra i primi: Eurialo e Niso e Giusy-Key, così come i commenti lasciati sulle pagine di Flickr) meno sui telegiornali (poco è stato comunque il peso dato alla manifestazione in genere).

Qualche voce si è mossa. Chi ha capito al volo, si è fatto qualche sana risata (che non guasta mai!)... Da parte nostra l’invito alla sobrietà e al contegno è stato rispettato.

Una promessa mantenuta: ci sembra un buon inizio!

ALCUNI RIFERIMENTI

Il blog del Circolo di Cultura Omosessuale Harvey Milk.

E dopo aver manifestato al Pride di Bologna, siamo approdati anche sul WEB!
Chi siamo? Siamo i membri del Milk, l'associazione di volontariato e cultura omosessuale che prende il nome del primo politico dichiaratamente gay eletto a San Francisco. Molti di voi ci ricorderanno per il nostro cartello satirico "Carfy, te la sbatto in faccia, la cravatta!" ebbene ora dopo le parole ecco la prima di una serie di opere concrete: il nostro neonato blog. L'abbiamo voluto così: semplice e colorato, come le nostre cravatte.

E' uno spazio di discussione, di approfondimento, di intrattenimento e arte varia.

È solo all'inizio: c’è bisogno anche di te per farlo crescere!

Passa a trovarci spesso e lascia la tua impronta.

A noi fa sempre piacere!

Se non avessimo parlato abbastanza o desiderassi maggiori informazioni sul circolo, clicca qui per leggere la presentazione del nostro portavoce Stefano Aresi.