martedì 31 marzo 2009

Qualcosa che non muore


Riflessioni sull’amore, sull’AIDS, sull’arte contemporanea.

Cammini distratto per le strade di una città. New York, supponiamo. È il 1992. Tra il caos metropolitano un manifesto commerciale che non spiega cosa pubblicizzi. Nessuna scritta a commentare né niente. Solo la foto in bianco e nero di un letto sfatto. Da qualche altra parte della città ancora un cartello, ancora un letto sfatto. Questa stessa scena in ventiquattro corners di questa New York. Non è l’inizio di un romanzo, è l’espressione del dolore di un tale Félix Gonzáles Torres. Nato a Guaimaro (Cuba) nel 1957, cresciuto tra Spagna e Porto Rico con un gatto ed una scatola di acquerelli, trasferitosi a trentatre anni negli USA dopo essersi fatto conoscere, tra le altre parti, a Londra e Hannover. Lui ha scattato le foto misteriose. A New York, Félix Gonzáles Torres ha voluto parlare d’amore. E non si è fermato. Ha continuato a parlare d’amore a Los Angeles, Berlino, Hiroshima, fino ad arrivare a Venezia, alla Biennale scorsa, nel padiglione degli Stati Uniti. Anche se a quel punto era morto da undici anni, anche se alla Biennale esponi solo se sei vivo. Venivano mostrati i suoi Landscapes, delle sculture realizzate con delle caramelle che il visitatore era invitato a portare via e mangiarsi. Perché questo era l’amore secondo l’artista, un sentimento a cui non si resiste ma che ti porta via a poco a poco fino a farti scomparire, fin’ad ucciderti. Stesso ragionamento per le sculture con i fogli di carta, stessa partecipazione e stesse riflessioni per lui e per il pubblico. “Il pubblico? Sarò onesto, senza troppi giochi di parole: il mio pubblico era Ross. Il resto della gente viene solo per i miei lavori”. Ross…il compagno di più di cinque anni morto dopo aver amato Félix in tutti quei letti di tutte quelle New York, dopo essere stato vitale come un cibo e dolce come una caramella destinata a morire e far morire con il vuoto. Ross è morto di AIDS nel 1990, Félix sei anni dopo per la stessa ragione. Ma non si è mai arreso e con l’immortalità dell’arte ha affermato la vita, lodato l’amore, ricordato la sacralità della memoria. E ci ha regalato questa poesia dei giorni nostri...

Matteo Stefanìa

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