lunedì 6 aprile 2009

Luca era gay: ecco gli effetti, parola di prof.

Pubblichiamo questo articolo di un nostro sostenitore: le riflessioni personali di un insegnante in una scuola media di Napoli, etero, che ha dovuto porsi da "esterno" una serie di domande sulla canzone di Povia presentata all'ultimo festival di Sanremo. Crediamo che la sua sia una testimonianza utile a stimolare ulteriori e più pacate riflessioni su un episodio che per il movimento glbt italiano resta l'ennesima sonora sconfitta causata da un modo di agire che ha dimostrato già abbastanza la propria inefficacia e pericolosità: perché non tramutarlo in una occasione di sana e vera autocritica e crescita?


Il Festival di Sanremo è finito ed io, insegnante di scuola media, mi sono trovato a riflettere su un fenomeno che avevo sottovalutato. Non avevo seguito la gara (non l’ho mai seguita, per la verità) ed ero convinto che le polemiche scatenate dalle associazioni gay sul “caso-Povia” avessero solamente aiutato il cantante a raggiungere una celebrità non meritata portando la canzone alla conoscenza di persone che, come me, non avrebbero altrimenti conosciuto il “poviapensiero”. Dissi anche: «Non sarebbe stato meglio ignorarlo per far sì che nessuno lo considerasse?». Dovetti ricredermi in classe, ad un paio di giorni dalla fine del Festival.

I ragazzi della II media in cui insegno mi accolsero cantando “Luca era gay” con molta leggerezza, svuotando il termine e la frase di ogni significato. Ripetevano le parole del testo meccanicamente, le cantavano soltanto perché erano state consacrate dalla televisione. Nella loro ottica, infatti, tutto ciò che passa in televisione è bello e giusto. Quando uno di loro mi chiese, addirittura, cosa significasse quel testo che cantava oramai da una settimana mi resi conto definitivamente di aver sottovalutato l’influenza che una canzone come quella di Povia poteva avere non solo sulla società ma anche sul mio lavoro di insegnante.

Nella scuola media, infatti, il lavoro principale di un insegnante è contribuire attraverso le varie discipline alla formazione globale dell’individuo. Ma, lo confesso, non mi era mai capitato di tenere una lezione esclusivamente sull’omosessualità. L’identità sessuale dei ragazzi di quell’età, nella maggior parte dei casi, non è ancora pienamente definita e la consapevolezza delle pulsioni sessuali viene sviluppata progressivamente e, soprattutto, naturalmente. Se deve essere loro data un’educazione alla sessualità, questa deve essere mirata a far acquisire una consapevolezza del corpo, a far conoscere i metodi di prevenzione che garantiscono di vivere la sessualità con serenità, senza pericolo di dover affrontare malattie o gravidanze indesiderate. Ma certo non penso certo che l’educazione sia necessaria per la definizione di un gusto personale e, proprio per garantire che sviluppassero naturalmente e liberamente le loro tendenze, ho cercato con grande passione di far nascere nelle loro menti così vivaci il valore del rispetto altrui, il rispetto di tutte le minoranze, la voglia di superare con l’amore per il prossimo ogni forma di razzismo.

Queste idee, che nella mia formazione familiare e scolastica sono state talmente presenti da apparirmi innate, sono divenute, per me, uno strumento didattico indispensabile. Per lo specifico compito che svolgo, il primo obiettivo che mi pongo è garantire l’accettazione di ogni ragazzo, pur se percepito dagli altri e per vari motivi come “diverso”. Ed è proprio l’educazione alla diversità che occupa un ruolo fondamentale nel processo di integrazione sociale e culturale. Tale educazione permette ai ragazzi di comprendere l’handicap di un compagno di banco, vincere la paura per chi ha la pelle di diverso colore, accettare chi manifesta comportamenti sessuali considerati non ordinari dalla società odierna. Diverse condizioni, evidentemente, ma unite nel loro destino di discriminazione.

Il lavoro di insegnante è lungo e meticoloso, basato su attività didattiche di gruppo in grado di valorizzare ed integrare chi è considerato “diverso”. È un lavoro che, dopo anni di sacrifici, dovrebbe formare delle persone in grado di rendere migliore la nostra società; è per questo che vado fiero del mio lavoro. E la canzone di Povia ha demolito in un sol colpo il lavoro di anni. Una canzone in cui l’essere gay è esclusivamente negatività. Le armi sono dispari. Io e i miei colleghi, nei limiti dell’orario scolastico, educhiamo i ragazzi al ragionamento; una canzone diffusa dai mass-media propone un’improbabile soluzione ad un problema che non esiste, e senza riflessione. Quei quattro minuti di parole, cantati (in modo maldestro) come se fossero una filastrocca, una nenia, da tanti pappagalli che ne ignorano il significato agisce in modo subdolo, come una pubblicità, puntando sull’istinto e sfruttando il potere che ha la televisione.

Nonostante il danno ho reagito con l’impegno. Ho ignorato la canzone di Povia, che i ragazzi hanno continuato a cantare. Ho solo spiegato loro che un uomo resta sempre libero di amare chi vuole. Certo... io l’ho spiegato senza rime improbabili. E in me resta la rabbia per chi, forse volutamente, ha compromesso un percorso di integrazione, sofferto, doveroso, necessario.

(Paolo Sullo - Napoli)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

I danni di questa canzone verranno alla luce solo a medio termine, tuttavia continuo a registrare la continua propaganda anti-gay che si sta facendo, specie a livello dei più giocani, da quando questa canzone ha dato il via.

Anonimo ha detto...

Sempre più spesso si sente parlare di interventi mirati a condizionare o modificare l'orientamento da omosessuale a eterosessuale. Sono le cosiddette "terapie riparative". Ognuno ha detto la sua, dai cantanti ai sacerdoti, troppo spesso bypassando gli addetti ai lavori: psicologi, psichiatri, psicoterapeuti. Il "dibattito" si è sviluppato in due direzioni: quasi tutti concordano nel dire che, essendo la preferenza omosessuale una normale espressione della sessualità, da anni non classificata tra le malattie mentali o i disturbi del comportamento, sarebbe un grave atto anti-terapeutico e anti-deontologico quello di cercare di "ripararla" (come si cerca di fare con le cose che "non funzionano") in chiave eterosessuale. Ma c'è chi sostiene che se è il paziente a chiedere di essere aiutato a "cambiare", allora è giusto che lo psicologo ci provi.

Due ricercatori statunitensi, Shidlo e Schroeder, nel 2002 hanno condotto uno studio su un campione di 202 soggetti per valutare l'efficacia e gli effetti delle terapie di riconversione sessuale. Hanno individuato due gruppi di pazienti: quelli che considerano fallita la terapia (l'87%, pari a 176 soggetti) e quelli che la ritengono riuscita (il 13%, pari a 26 soggetti). Tra questi ultimi, però, 18 soggetti riferiscono che i benefici sono stati ottenuti grazie all'uso di specifiche tecniche di "gestione del comportamento omosessuale", optando per il celibato oppure ingaggiando un'incessante lotta contro la propria omosessualità; 8 riferiscono di aver ricevuto un aiuto nella conversione all'eterosessualità (ma queste stesse persone svolgono il ruolo di tutors in gruppi di ex-gay).

Del gruppo rimasto omosessuale, 20 soggetti non riportano danni psicologici a lungo termine e anzi si sentono quasi "fortificati" dalla conferma di essere proprio omosessuali. I restanti 156 soggetti accusano invece effetti collaterali negativi derivati dalla frustrazione di non essere riusciti a raggiungere l'obiettivo: depressione, ansia, dissociazione, abuso di sostanze, comportamenti compulsivi e autolesivi (fino a tentativi di suicidio).

Il più recente studio è stato appena pubblicato sulla rivista BMC Psychiatry. Durato sette anni e condotto da Annie Bartlett, Glenn Smith e Michael King della St. George University e della University College Medical School di Londra, ha analizzato le risposte di 1328 terapeuti inglesi a un questionario. Anche se solo il 4% degli intervistati riferisce che, su richiesta dell'interessato, proverebbe a modificare l'orientamento sessuale di un paziente, il 17% riconosce però di aver condotto interventi psicologici orientati a modificare le preferenze sessuali di qualche paziente gay o lesbica. Diverse sono le ragioni addotte dai clinici per giustificare il loro intervento "riparativo". In cima alla classifica troviamo la "confusione del paziente nei confronti del proprio orientamento sessuale", seguita dalla "pressione sociale e familiare", dai "problemi di salute mentale" e, infine, dal "credo religioso". "Le persone con cui ho praticato l'intervento", risponde uno degli psicologi "riparatori" intervistati, "erano molto infelici a causa della loro sessualità: il loro desiderio era diventare eterosessuali. E questo a causa dalle pressioni degli amici, della famiglia e delle comunità locali".

Dunque, dicono alcuni, la possibilità di "conversione" dovrebbe essere disponibile a chi ne fa richiesta, nel rispetto della sua volontà e della sua libertà. Ma il paradosso è che sarebbe una libertà cercata in conseguenza di una costrizione: l'omofobia, sia sociale (come nell'esempio riportato), sia "interiorizzata". "Per molti uomini e donne", dice Michael King, "scoprire di essere gay è motivo di stress. Per questo alcuni si rivolgono allo psicologo (o ci vengono mandati dai genitori) per essere aiutati a cambiare. Di questi psicologi, alcuni magari sono animati dalle migliori intenzioni. Ma quello che dovrebbero fare è aiutare i loro clienti a fare i conti con la loro condizione, a capire che ad avere un problema è la società, non sono loro. Non esistono ricerche in grado di provare l'efficacia di tali interventi: si tratta di opzioni sconsiderate e spesso dannose".

Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli (Facoltà di Psicologia 1, Università La Sapienza, Roma)